intervista a francesca cavallo

Francesca Cavallo, bambina ribelle con un fuoco nel cassetto 

Francesca Cavallo
Scrittrice

Infondere coraggio a tutte le persone che si sentono “sbagliate” o che credono di non essere nate nel mondo giusto ovvero un mondo che possa permettere loro di coltivare e inseguire i propri sogni. È questo l’intento della scrittrice Francesca Cavallo, che ha voluto raccontare la sua storia di imprenditrice queer nel suo nuovo libro autobiografico “Ho un fuoco nel cassetto”, edito da Salani. 

La scrittrice tarantina è reduce dal successo del bestseller mondiale “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, il libro più finanziato nella storia del crowdfunding, tradotto in 48 lingue, che ha venduto oltre 6 milioni di copie nel mondo. È un testo che ha acceso i riflettori sulla “female education”, proponendo alle bambine (e ai bambini) modelli valoriali reali attraverso storie di donne che hanno affrontato e superato sfide in contesti professionali generalmente appannaggio degli uomini. Francesca Cavallo, dunque, dopo aver raccontato le storie e le vicissitudini di alcune grandi donne del passato, ha scelto di raccontarsi in prima persona.

Coraggio, collaborazione, cura, curiosità sono alcuni dei valori che caratterizzano ABB e che si riflettono nel nostro modo di fare business e di agire nelle comunità. Valori imprescindibili che sono anche il fil rouge del suo ultimo libro, “Ho un fuoco nel cassetto”. Vuole parlarcene?
“Ho un fuoco nel cassetto” racconta la mia storia imprenditoriale. Avevo chiuso “Storie della buonanotte per bambine ribelli” con due pagine bianche, nelle quali invitavo le ragazze a disegnare il proprio ritratto e a raccontare la propria storia. Questo mio nuovo libro è come se fosse la mia risposta a quell’invito lanciato alle lettrici: ho scelto di disegnare il mio ritratto e di raccontare la mia storia, che è quella di una donna meridionale queer cresciuta in un paese di provincia a Taranto, con un padre venditore di automobili e una mamma casalinga, che è dovuta evadere da tantissimi recinti che le erano stati disegnati intorno dal suo genere, dal suo accento, dalla provenienza geografica e dalla classe sociale. Ho scritto questo libro per dimostrare alle persone, soprattutto alle donne e alle minoranze, che da questi recinti si può evadere in tante maniere. Credo che comunicare in quali modi si può riuscire a vivere una vita che si espande oltre determinati confini abbia un enorme potenziale di cambiamento non soltanto personale ma anche di rinnovamento collettivo.


Ho scritto questo libro per dimostrare alle persone, soprattutto alle donne e alle minoranze, che dai recinti si può evadere in tante maniere.

A tal proposito, ABB vorrebbe aprire sempre di più le porte del suo mondo tecnologico alle ragazze che trovano in questo ambito e in questo percorso la rispondenza ai loro sogni e ai loro desideri. Come è possibile, secondo lei, incoraggiarle a intraprendere gli studi in materie STEM?
Qualcuno sostiene che sarebbe ora di smetterla di “tenere il piede sul collo delle donne” e io sono d’accordo: non c’è bisogno di spingerle ma piuttosto la necessità di rendere le cose meno difficili per le ragazze che scelgono di intraprendere una determinata carriera. A mio avviso, è questo il punto dal quale partire: il rischio che ho sempre intravisto nel trattare il tema della scarsità di donne nel comparto della tecnologia stimolando le donne stesse a crederci di più si scontra con il mondo del lavoro, progettato a monte per tenerle al di fuori di determinate carriere, rendendo cocente la loro delusione. Una buona parte del cambiamento, in questo senso, andrebbe svolta da chi detiene il potere in questo momento. Poi è evidente che anche i genitori devono svolgere la loro parte: bisogna smetterla, per esempio, di pensare che ci sono cose da femmine e cose da maschi. È necessario sviluppare un senso critico nei confronti dei giochi che si acquistano e delle esperienze che si propongono ai figli. Nei supermercati le corsie dedicate ai giochi da maschi propongono tecnologia e mezzi di trasporto, le corsie per le femmine pullulano di riferimenti alle attività domestiche. Questo è un retaggio molto problematico di un tipo di educazione che tutti noi, più o meno, abbiamo ricevuto: ciascuno deve fare un’operazione di smantellamento di una serie di stereotipi che abbiamo introiettato crescendo. 


Ciascuno deve fare un’operazione di smantellamento di una serie di stereotipi che abbiamo introiettato crescendo. 

E le aziende come dovrebbero agire?
Le aziende devono evitare di pensare che i buoni sentimenti siano sufficienti per equilibrare la gender disparity sul luogo di lavoro. Per esempio, smettiamola di sostenere che si è tentato di cercare una donna per un determinato ruolo ma non è stata trovata. Se pensiamo che avere dei consigli di amministrazione che abbiano un numero pari di uomini e di donne sia la cosa giusta da fare, bisogna fare tutto il lavoro che serve, e anche di più, per arrivarci! Pensiamo alle società tecnologiche e a come riescono a creare oggetti e soluzioni strabilianti dal punto di vista dell’innovazione. Bene: se queste realtà adottassero lo stesso atteggiamento rassegnato alla prima difficoltà che insorge, non riuscirebbero a inventare nulla di nuovo. E allora mi chiedo: perché non si applica alla parità di genere quello stesso spirito di avventura e di determinazione che spinge a voler a tutti i costi forzare i limiti dell’esistente? È garantito che quando si adotta questo tipo di atteggiamento i risultati arrivano: magari serve un po’ di R&D ma d’altra parte questo è quello che viene richiesto all’innovazione e nessuno dovrebbe saperlo meglio delle società che si occupano di tecnologia. 


Smettiamola di sostenere che si è tentato di cercare una donna per un determinato ruolo ma non è stata trovata.

Pensa che ci sia qualcosa che sta motivando le nuove generazioni a considerare in modo prioritario il tema della diversità e dell’unicità delle persone?
Sì. Ultimamente nelle storie che ci circondano, dalle serie televisive ai libri, c’è una maggiore rappresentazione di donne che intraprendono carriere scientifiche. “Storie della buonanotte per bambine ribelli” ne è un esempio. I dati da cui partiamo comunque sono drammatici: nel 2016 solamente il 18% dei personaggi femminili nei cartoni animati per bambini aveva un lavoro o aspirazioni professionali contro l’87% dei personaggi maschili. Magari avvertiamo la sensazione di aver fatto molta più strada ma la realtà è che viviamo ancora in un mondo che, per la maggior parte, continua saldamente a proporre gli stessi modelli. Il contenuto “nuovo” e differente introdotto negli ultimi tre o quattro anni non può compensare quella mole di film, libri e cartoni animati prodotti nei cento anni precedenti. È stato studiato che ciò che viene rappresentato nei film e nei libri nell’arco di dieci anni ha poi un impatto forte sui bambini: per esempio, c’è stato un significativo aumento di ragazze che hanno iniziato a fare tiro con l’arco dopo l’uscita di “The Brave” o un gran numero di bambini maschi che ha iniziato a fare danza dopo l’uscita di “Billy Elliot”. Noi narratori abbiamo sempre la speranza che le storie possano cambiare il mondo: finalmente si sta iniziando a studiare questo fenomeno, mi riferisco al Social Impact Entertainment (SIE). E pare che, per fortuna, sia proprio così.


Nel 2016 solamente il 18% dei personaggi femminili nei cartoni animati per bambini aveva un lavoro o aspirazioni professionali contro l’87% dei personaggi maschili.

Cosa si può fare di concreto?
Dobbiamo smettere di insegnare alle bambine che valgono meno dei maschi, perché siamo noi adulti a portarle a credere questo, attraverso l’esempio che vedono in casa, i commenti che facciamo sulle altre persone o le storie che leggiamo loro. Tutto questo viene chiamato il “curriculum nascosto”. Una gran quantità di donne sogna il matrimonio da fiaba perché ci è stato insegnato da Walt Disney e dalle storie sulle principesse con il principe azzurro che arriva a salvarle. Cosa succede se iniziassimo a raccontare loro la storia della scoperta di una batteria quantistica? È questo il punto. Le “Storie della buonanotte per bambine ribelli” si raccontano alle bambine ma anche ai genitori: è così che cambia il modo di leggere la realtà e si è più disposti a cogliere dei segnali…

Uno dei tre pilastri su cui si basa la strategia di sostenibilità 2030 di ABB è il progresso sociale. Dal suo punto di vista, quali azioni possono essere implementate in una realtà aziendale affinché i dipendenti si sentano liberi di esprimere il proprio potenziale, la propria unicità, senza limitazioni o distinzioni?
Credo che la cosa fondamentale sia porsi tante domande. A volte ho qualche timore sulle iniziative rivolte alle persone discriminate perché rischiano di alterizzare ulteriormente. È molto più efficace, a mio avviso, intraprendere un percorso personale: informarsi, leggere e approfondire per avviare un lavoro di smantellamento dei propri stereotipi, ragionando sulle proprie sensazioni ed emozioni. Chiedersi, ad esempio: cosa provo quando incontro quel collega che non incarna l’ideale di come, secondo me, si dovrebbe muovere un uomo? Perché provo fastidio? Quali corde sta toccando questa cosa dentro di me? A cosa sto resistendo? Ecco: ammettere queste sensazioni a sé stessi, porsi queste domande e mettere in pratica questo atteggiamento vale a mio avviso più di qualsiasi altra iniziativa che si possa intraprendere. Invece, purtroppo, in molti luoghi di lavoro si spingono le persone a censurare quello che sentono. Il risultato? Non sarà mai “autentico” il loro voler accogliere la persona “diversa” che hanno davanti ma sarà sempre filtrato dall’ideologia e dalla “sceneggiatura” che l’azienda ci sta chiedendo di seguire. Pensate invece a quanto è più profondo iniziare a stare in presenza di quel disagio senza, chiaramente, scaricarlo sulla persona che lo crea. Fare un lavoro profondo di accoglienza dell’altro è un’esperienza che ci cambierà per sempre perché non avremo imparato, semplicemente, a usare le parole corrette. 

In tema di diversità non si tratta di imparare un copione da recitare…
Proprio così. Quando si parla di diversità si pensa sempre che la battaglia si debba combattere per gli altri, invece è molto importante pensare di doverla combattere prima di tutto per noi stessi. Bisogna pensare che la battaglia, per ciascuno di noi, rappresenta un’opportunità di crescita personale. Lo ripeto: bisogna provare a stare in compagnia della resistenza che, eventualmente, si prova davanti a una certa persona o a una certa idea per capire a cosa stiamo resistendo esattamente. È questo il lavoro da fare. Tutto ciò non riguarda solo l’inclusione di persone “diverse” in azienda ma riguarda l’occasione di ripensare ai luoghi del lavoro, dove trascorriamo un’infinità di tempo, come a luoghi di crescita spirituale per ciascuno di noi. L’obiettivo di tutti noi è quello di elevarci come genere umano. Al di là di quello che fanno le singole aziende, se riuscissimo a lavorare insieme in determinati modi che ci facciamo crescere, che ci mettano in discussione, che ci facciano interrogare su alcune cose che sono profondamente umane, che senso avrebbe intraprendere altre iniziative? 


Quando si parla di diversità si pensa sempre che la battaglia si debba combattere per gli altri, invece è molto importante pensare di doverla combattere prima di tutto per noi stessi.

Come possiamo aiutare i nostri colleghi, i nostri amici e contatti a sentirsi più a proprio agio rispetto alla loro unicità?
Quando ho iniziato a scrivere “Ho un fuoco nel cassetto” non volevo che fosse la classica parabola del successo: da ragazzina del sud a fondatrice di un’azienda in California. Per questo mi sono soffermata più sul viaggio che sui risultati. Il viaggio è la cosa che ci accomuna tutti. Sui risultati, dobbiamo ammettere che quando abbiamo successo ci piace dire che è tutto merito nostro e quando non abbiamo successo ci piace attribuire questo a fattori esterni. La verità è che abbiamo il controllo solamente sul modo in cui facciamo il viaggio, poi ci sono tanti fattori che sono al di fuori del nostro controllo. Ho voluto condividere con i lettori anche tutte le fragilità che hanno caratterizzato il mio viaggio, perché soltanto facendo questo tipo di racconto ho avuto la sensazione di riuscire a prendermi per mano con altre viaggiatrici e viaggiatori che stanno cercando di farsi delle domande per capire come poter vivere con coraggio e assicurarsi un’esistenza piena. Mi piace immaginare che “Ho un fuoco nel cassetto” possa rappresentare quel gesto di prendersi la mano e di fare un pezzetto di viaggio insieme… 

A cura di Simona Recanatini >>

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